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Le Braci di Sándor Márai | Recensione

Dopo quarantun anni, due uomini, che da giovani sono stati inseparabili, tornano a incontrarsi in un castello ai piedi dei Carpazi. Uno ha passato quei decenni in Estremo Oriente, l’altro non si è mosso dalla sua proprietà. Ma entrambi hanno vissuto in attesa di quel momento. Null’altro contava per loro. Perché? Perché condividono un segreto che possiede una forza singolare: “una forza che brucia il tessuto della vita come una radiazione maligna, ma al tempo stesso dà calore alla vita e la mantiene in tensione”. Tutto converge verso un “duello senza spade” ma ben più crudele. Tra loro, nell’ombra il fantasma di una donna.

Non ho mai letto nulla di Sándor Márai e proprio qualche tempo fa mi sono imbattuta in una sua citazione che mi ha colpita talmente tanto da voler leggere qualcosa di questo autore (la citazione l’ho inserita anche nel secondo racconto di Aki il Bakeneko che trovate su amazon XD).

Alla prima occasione degli sconti Adelphi ho acquistato Le braci, un romanzo che parla dell’amicizia di due uomini che hanno condiviso gran parte della loro infanzia e giovinezza, per poi separarsi per ben quarantun anni. Passato questo tempo si incontreranno di nuovo per parlare dei fatti accaduti anni prima, ma le cose non sono semplici, soprattutto perché tra loro c’è il fantasma di una donna.

Punto di forza del romanzo è sicuramente la scrittura. Sándor Márai ha uno stile fluido e l’ho trovato molto poetico soprattutto per le metafore, più volte ho riletto alcuni passaggi trovandoli malinconici ed eleganti. La malinconia è il sentimento che regna per gran parte del libro, a volte questa emozione viene stemperata dalla tensione crescente perché man, mano che si va avanti si scopre qualcosa in più sugli avvenimenti che hanno determinato la rottura dell’amicizia.

Henrik e Konrad si conosco da bambini, e da quel momento nasce un’amicizia quasi viscerale, a tratti ho anche pensato che ci fosse qualcosa in più tra i due. Nonostante la diversa situazione economica e sociale in cui vivono, i due giovani crescono insieme e si sostengono a vicenda. Un giorno Konrad presenta al suo migliore amico la bella Krisztina e da quel momento le cose cambieranno. 

La trama è lineare, non ci sono colpi di scena, o per lo meno io ho trovato i vari passaggi prevedibili, ma sono stata catturata dalla potenza delle pagine di Márai. Più che sui personaggi, l’autore si focalizza sulle relazioni. L’amicizia è il punto cardine che viene messo in discussione, come anche l’amore e il rispetto. Devo dire che non ho molto apprezzato Krisztina come personaggio, a volte mi ha ricordato un po’ Daisy del Grande Gatsby, sono entrambe donne deboli emotivamente, figure che non hanno il coraggio di prendere una decisione se non spinte all’estremo. Eppure sarà proprio questa fragilità di Krisztina a determinare la rottura di questa bella amicizia.

Una lettura che ho apprezzato molto e che consiglio di recuperare se siete attratti dalla scrittura di Márai.

L’albero dello zenzero di Wynd | Recensione

1903. Quando Mary, dopo un lungo viaggio dalla Scozia alla Cina, si trova davanti al suo promesso sposo, che conosce appena, capisce che non sarà un matrimonio felice. Persino quando rimane incinta Mary si sente sola. Fino a quando, in una delle sue passeggiate, incontra il samurai Kurihama, discendente di una nobile famiglia giapponese. L’uomo è schivo e taciturno, ma riesce lo stesso a trasmetterle il fascino del suo paese, raccontandole di una cultura millenaria e di leggende meravigliose. L’amore nasce senza che Mary possa riuscire a fermarlo. Sa che è proibito, ma sa anche che non si è mai sentita così prima. Quando la loro storia viene scoperta, il marito la ripudia e le impedisce di vedere la figlia, lasciandole una ferita profonda. Eppure, lei non è solo una madre, è anche una donna. Ha dei sogni, delle speranze, dei progetti, a cui si aggrappa per non soccombere. Mary si lascia travolgere dalle luci di Tokyo, dove ha deciso di vivere con Kurihama e il loro bambino. Ma scopre presto anche lì l’impossibilità di affermarsi ed essere indipendente perché donna. Decide allora che farà di tutto per dimostrare ai suoi figli che un mondo migliore è possibile, mettendosi a capo di un impero di empori di abiti e stoffe orientali. Perché come l’albero di zenzero può crescere anche nei terreni più ostili, così la forza di una donna non può essere sconfitta. Una storia di rinunce e coraggio. Di amore e di lotta per i propri sogni. Una storia in cui il Giappone affiora come lo sfondo in un dipinto per rendere tutto più vivido e con un fascino senza tempo.

Un romanzo con un’ambientazione storica dai toni orientali.

Cina. 1903. Mary Mackenzie lascia la sua patria, la Scozia, per andare in Cina e sposare un uomo che ha visto solo una volta in foto. Richard è un uomo freddo, austero, completamente dedico al suo lavoro, soprattutto in un periodo in cui iniziano a esserci i primi movimenti della guerra. Oltre a questo Mary dovrà imparare una cultura completamente diversa da quella a cui è abituata: quella orientale. Tutto cambia nel momento in cui la nostra protagonista incontra Kurihama, discendente di una nobile famiglia giapponese, un uomo taciturno che però riesce a catturare l’attenzione di Mary. 

Il libro racconta di un arco temporale molto interessante che va dal 1903 fino al 1942, un periodo travagliato e sventurato per la storia che però non è in primo piano nella narrazione. Il tutto si concentra sulla vita di Mary, una ragazza di quasi vent’anni, che viene catapultata in un mondo affascinante e diverso dal suo. Ho apprezzato molto la crescita di questo personaggio, che fin dall’inizio non accetta di buon grado le costrizioni della società in cui vive. A volte il lettore potrebbe non trovarsi d’accordo con le sue scelte di vita, ma il tutto le serve per fortificarsi e per trovare la sua strada. Una donna che nonostante gli errori e i suoi dubbi, riesce a costruire una sua indipendenza, senza nessun aiuto. E questo è l’aspetto che risalta maggiormente nel romanzo.  Wynd racconta non solo della Cina, ma anche del Giappone, in modo dettagliato e accurato, dalle sue parole traspare l’amore per questa cultura. 

Piccola “chicca” che ho apprezzato molto sono state le citazioni di alcuni autori che hanno scritto del paese orientale come Pierre Loti e Lafcadio Hearn.

Per quanto riguarda gli altri personaggi sono ben delineati, anche se non approfonditi, proprio perché anche la narrazione è dal punto di vista di Mary. La trama è molto lineare, la storia scorre seguendo un percorso ben chiaro, ma trovo che questo libro abbia una piccola “pecca”: lo stile di scrittura. O per meglio dire il modo in cui Wynd decide di raccontare questa storia. Il tutto si sviluppa attraverso pagine di diario personale della protagonista e lettere che scrive lei stessa alla madre (e non solo), quindi Mary non fa altro che raccontare quello che le succede e ciò determina un testo privo di dialoghi.  Mi è dispiaciuto veramente tanto per questo aspetto perché, anche se lo stile di Wynd lo trovo molto elegante, sono dell’idea che alcune scene se le avesse “mostrate” invece di raccontarle attraverso Mary, avrebbero avuto un peso e pathos diverso.

A parte questo punto sullo stile, che è molto soggettivo, la lettura mi ha intrattenuto fino alla fine e, ammetto, che alle ultime pagine ho avuto anche una stretta al cuore. Non aspettatevi una storia passionale o travolgente, ma un romanzo delicato che racconta di come una donna trova la sua indipendenza.

 


#Prodottofornitoda @Garzanti

Le cronache dell’acero e del ciliegio. La maschera di No di Monceaux | Recensione

Le cronache dell’acero e del ciliegio formano una tetralogia ambientata nel Giappone del XVII secolo. Seguiamo due eroi, Ichirō, giovane samurai dal favoloso destino, e la misteriosa Hiinahime, una sconosciuta che si nasconde dietro una maschera nō. Nei primi due volumi l’io narrante è Ichirō, negli altri due toccherà all’eroina Hiinahime raccontare la vicenda. Il primo tomo, intitolato “La maschera di No”, ripercorre la vita di Ichirō dall’infanzia all’adolescenza. Abbandonato, Ichirō viene cresciuto come un figlio da un ignoto samurai che gli insegna la via della spada. Il ragazzo vivrà un’esistenza solitaria tra le montagne, nel cuore di una natura selvaggia e al ritmo delle stagioni, tra momenti di beatitudine e spensieratezza e un apprendistato che richiede costanza e coraggio. Ma in una tragica notte, la vita di Ichirō viene sconvolta dall’attacco di loschi samurai. Il destino lo porterà allora a Edo (l’antica Tokyo), dove inizierà a esibirsi nei teatri kabuki; lì stringerà le prime amicizie e incontrerà Hiinahime, la sconosciuta con la maschera Nō. Il secondo tomo della tetralogia, La spada dei Sanada, sarà pubblicato ad ottobre.

Adoro le storie che hanno il sapore orientale, quindi appena ho visto questo nuovo libro edito Ippocampo non ho resistito e l’ho subito acquistato.

Partiamo con il dire che ci ho messo più tempo del solito nel finire di leggere questa storia, che è il primo volume di una saga. 

Ambientato nel Giappone del XVII secolo, il lettore conosce Ichirō, un orfano che viene allevato fin da bambino da un samurai, che si è ritirato dalla sua vita di battaglie, e una donna, la quale segue l’uomo da anni. Il bambino cresce circondato dalla vegetazione delle montagne, isolato dal mondo, ma con Oba che lo accudisce come se fosse una mamma/nonna e il suo maestro che gli insegna la via della spada. Un avvenimento tragico sconvolge la vita del ragazzino che è costretto a intraprendere un viaggio verso Edo, dove scoprirà finalmente il mondo, la cattiveria delle persone, la sofferenza, il dolore sulla sua pelle, ma anche l’amicizia e il teatro. 

Ho amato l’ambientazione, si vede che l’autrice ha studiano per bene gli usi e i costumi (ci sono poche note a fondo pagina che spiegano alcuni termini degli abiti e delle strutture), e ho amato anche la tematica del teatro. In questo periodo storico ci sono due tipologie di teatro, quello No, che ha un pubblico altolocato e dove gli attori sono tutti maschi (infatti interpretano anche ruoli femminili), poi c’è il teatro Kabuki, quello nato per intrattenere il popolo dove anche le donne possono esibirsi e dove il nostro protagonista Ichirō si troverà a lavorare. Quest’ultimo teatro è considerato illegale e immorale proprio per la presenza delle donne.

Ho trovato molto interessante il personaggio di Ichirō, un ragazzino innocente che viene preso subito di mira da persone maligne che vogliono approfittarsi di lui, ma conoscerà anche l’amicizia con Shin, un ragazzo che ama l’arte e il teatro, e proverà sentimenti particolari e più intimi con la misteriosa Hiinahime.  Hiinahime è una ragazzina che vive anche lei isolata dal mondo e con una maschera di No che le copre il viso. Si tratta di un personaggio tenero e forte allo stesso tempo, ho amato il colpo di scena che la riguarda e anche se compare verso la fine del libro, quel poco mi è bastato per affezionarmi a lei. Insomma quei pochi personaggi a mio parere vengono caratterizzati bene, anche se non sono completamente approfonditi, ma immagino sia normale visto che si tratta solo del primo volume. 

Ma parliamo della trama. Perché prima ho detto che ci ho messo più tempo del solito nel leggere questo libro? Perché per le prime 200 pagine l’ho trovato tremendamente prolisso, pieno di descrizioni e di situazioni che, secondo me, non portano a nulla alla storia. Un esempio? All’inizio ci sono almeno una ventina di pagine che raccontano della quotidianità del protagonista. Ora, per quanto questo possa introdurre l’ambientazione e far capire al lettore l’epoca in cui ci troviamo, sinceramente l’ho trovato un po’ troppo. Fortunatamente da metà libro la trama inizia a decollare per poi conquistarmi. 

In conclusione è un libro che consiglio, ma preparatevi al fatto che la trama prende forza da metà libro in poi. Comprerò il secondo volume? Sì, ora devo assolutamente sapere cosa succedere dopo un finale del genere 🙂 

 

Dove le ragioni finiscono di Li Yiyun | Recensione

Una madre e un figlio si parlano in un mondo senza tempo. Lei è una scrittrice, lui è Nikolai, il ragazzo sedicenne che si è tolto la vita pochi mesi prima. Le parole sono l’unica risorsa a cui la madre può attingere così da ridare vita al figlio, e portare avanti con lui le conversazioni toccanti, profonde, intime di quando era al mondo. Il ricordo di una poesia amata si lega a quello di una torta fatta in casa, la memoria di un viaggio dà corpo e colore ai luoghi visitati, i mirtilli sono la chiave d’accesso al bambino che è stato Nikolai. In un dialogo continuo, come un flusso di coscienza, le due voci raccontano una storia d’amore: quello assoluto che pretendono i figli, quello pieno di dubbi e di colpe che scorre nei genitori, e in fine quello fatale che li accomuna, l’amore che consuma chi va in cerca del senso ultimo dell’esistenza a costo di privarsene, nel corpo o nello spirito. Nato dall’esperienza drammatica vissuta dalla scrittrice, “Dove le ragioni finiscono” non è un romanzo ed è più di un memoir. Come in una tragedia greca, Yiyun Li ci avvicina alla sua storia, e ci consegna pagine così nitide da compiere il miracolo, quello di accompagnarci nell’abisso dell’indicibile per uscirne purificati, liberi, più forti.

 

Un romanzo delicato che tocca le corde più intime del lettore. 

Dove le ragioni finiscono è un romanzo che tratta di una madre che ha perso il figlio sedicenne. Fin dall’inizio la protagonista immagina di parlare, nella quotidianità, con il suo adorato Nikolai e nei dialoghi si affrontano discorsi come la paura e la solitudine. La madre sa bene che il figlio e le conversazioni non sono reali, ma frutto della sua immaginazione, eppure, il non voler accettare questa disgrazia la porta a “tenere con sé” suo figlio, che spesso rappresenta proprio la parte più razionale della protagonista. Nikolai più di una volta le ricorda che non è reale e le chiede per quanto ancora continuerà così.

Si tratta di scrittura, perché appunto la protagonista è un’autrice che spesso riflette sul significato delle parole, e si parla anche di passioni e ricordi. Questo ultimo aspetto permette di scoprire meglio il rapporto che c’era tra madre e figlio. 

L’autrice ha il potere di rendere questa storia intima, tosta per la tematica, ma con una penna delicata e malinconica. Il lettore si sente avvolto in una coperta confortevole, capace di “ovattare” la tragedia della storia. Da lettrice mi sono avvicinata “in punta di piedi” a questo libro che non è solo un romanzo, ma molto di più, perché Yiyun Li ha patito la stessa tragedia della protagonista. Sapendo questo, più volte mi è sembrato di leggere i pensieri non della protagonista, ma dell’autrice, e spesso le due figure si sono sovrapposte. 

Questo non è un romanzo avvincente, non aspettatevi colpi di scena o intrighi, ma preparatevi a immergervi in una confessione, una preghiera, un elogio alla parola scritta, un percorso di elaborazione del lutto che saprà toccare i punti più sensibili del vostro animo. 

#Prodottofornitoda @NNEditore

 

 

Norwegian Wood di Murakami | Recensione

Uno dei più clamorosi successi letterari giapponesi di tutti i tempi è anche il libro più intimo, introspettivo di Murakami, che qui si stacca dalle atmosfere oniriche e surreali che lo hanno reso famoso, per esplorare il mondo in ombra dei sentimenti e della solitudine. Norwegian Wood è anche un grande romanzo sull’adolescenza, sul conflitto tra il desiderio di essere integrati nel mondo degli “altri” per entrare vittoriosi nella vita adulta e il bisogno irrinunciabile di essere se stessi, costi quel costi. Come il giovane Holden, Toru è continuamente assalito dal dubbio di aver sbagliato o poter sbagliare nelle sue scelte di vita e di amore, ma è anche guidato da un ostinato e personale senso della morale e da un’istintiva avversione per tutto ciò che sa di finto e costruito. Diviso tra due ragazze, Naoko e Midori, che lo attirano entrambe con forza irresistibile, Toru non può fare altro che decidere. O aspettare che la vita (e la morte) decidano per lui.

Con Murakami ho un rapporto di odio e amore. Alcune opere mi intrattengono, altre mi lasciano in un vortice di confusione più totale. 

Per quanto ami il realismo magico, trovo che l’autore, quando scrive opere di questo genere, forzi un po’ la mano. Non permette al lettore di tenere a mente quella sottile linea che divide la realtà dalla fantasia. Ma Murakami è anche storie di vita, di lutto e di passione e Norwegian Wood parla proprio di questo. 

Il protagonista è Toru, un ragazzo diviso tra due donne completamente diverse tra loro: Naoko, la fidanzata del suo amico morto suicida, e Midori, una compagna di università dal carattere espansivo e solare, ma che ha anche molti traumi sulle spalle. Naoko è una ragazza timida, silenziosa, con la testa tra le nuvole, in realtà è rimasta così traumatizzata dal gesto del suo ragazzo che alla fine decide di seguire un percorso in una clinica. Toru cercherà di starle vicino, lasciandole però anche i suoi spazzi, mentre lui vive la sua vita universitaria. 

Il protagonista non mi ha fatto impazzire, ha un ruolo più passivo che attivo, si limita a contemplare e a studiare la situazione, non prende mai l’iniziativa questo perché ha paura di sbagliare, eppure, nonostante questa figura, la penna di Murakami mi ha tenuta incollata alle pagine.

Si parla di depressione, di suicidio, di lutto, di passione, del desiderio di cercare il proprio posto nella società, o di essere se stessi. A differenza del protagonista, ho invece trovato ben costruiti Naoko e Midori, così diverse eppure così interessanti ed enigmatiche. Ho adorato tutti i riferimenti letterari e musicali che fa l’autore, come in ogni sua opera, ma non ho molto apprezzato le scene di sesso, sia per come l’autore le descrive, sia perché qui, per i miei gusti, ce ne sono un po’ troppe. Il più delle volte l’atto parte come un gesto per consolarsi per poi sfociare nella passione e questo è in linea con il tenore della storia. 

Norwegian Wood è un romanzo che comunque è riuscito a intrattenermi, ricco di riferimenti culturali occidentali e di messaggi di vita che sono tanto cari all’autore. 

 

Klara e il Sole di Kazuo Ishiguro | Recensione

Seduta in vetrina sotto i raggi gentili del Sole, Klara osserva il mondo di fuori e aspetta di essere acquistata e portata a casa. Promette di dedicare tutti i suoi straordinari talenti di androide B2 al piccolo amico che la sceglierà. Gli terrà compagnia, lo proteggerà dalla malattia e dalla tristezza, e affronterà per lui l’insidia più grande: imparare tutte le mille stanze del suo cuore umano. Dalla vetrina del suo negozio, Klara osserva trepidante il fuori e le meraviglie che contiene: il disegno del Sole sulle cose e l’alto Palazzo RPO dietro cui ogni sera lo vede sparire, i passanti tutti diversi, Mendicante e il suo cane, i bambini che la guardano dal vetro, con le loro allegrie e le loro tristezze. Ogni cosa la affascina, tutto la sorprende. La sua voce, così ingenua ed empatica, schiva e curiosa quanto quella di un animale da compagnia, appartiene in realtà a un robot umanoide di generazione B2 ad alimentazione solare: Klara è un modello piuttosto sofisticato di Amico Artificiale, in attesa, come la sua amica Rosa e il suo amico Rex, e tutti gli altri AA del negozio, del piccolo umano che la sceglierà. A sceglierla è la quattordicenne Josie. E fin dalla sua prima visita al negozio, nonostante l’ammonimento di Direttrice sulla volubilità dei bambini, Klara sente di appartenerle, e per sempre. Josie è una ragazzina vivace e sensibile, ma afflitta da un male oscuro che minaccia di compromettere le sue prospettive future. Per lei Klara è pronta ad affrontare la brusca autorevolezza di una madre cupa e indecifrabile, l’ostilità spiccia di Domestica Melania e gli scherzi cattivi dei compagni speciali che frequentano con Josie gli «incontri di interazione», e che mal sopportano i diversi. Quando la malattia di Josie colpisce più duramente, Klara sa che cosa fare: deve trovare colui da cui ogni nutrimento discende e intercedere per la sua protetta, anche a costo di qualche sacrificio; deve impegnarcisi anima e corpo, come se anima e corpo avesse.

Una storia che con delicatezza affronta temi importanti e pone al lettore una domanda: può un’intelligenza artificiale comprendere i sentimenti umani?

Il lettore conosce Klara, un robot umanoide che si nutre di energia solare. Il suo obiettivo è quello di sostenere e di provvedere ai bisogni del suo amico umano. Un giorno viene scelta da Josie, una ragazzina che purtroppo ha una malattia che non le rende la vita semplice. Sarà compito di Klara aiutarla. 

La storia è vista dal punto di vista di Klara, un robot che si limita ad analizzare ogni aspetto umano. La protagonista ha una grande sensibilità nel cogliere le sfumature delle emozioni umane, e ho trovato affascinante e a volte simpatico il modo in cui si approccia alle situazioni. Klara sembra una bambina, e come tale cerca di fare sue le esperienze, al fine di provvedere al meglio ai bisogno di Josie. 

Lo stile di Ishiguro è descrittivo, ma scorrevole. I particolari dell’ambientazione, della società in cui si muovo i personaggi, si scoprono mano, mano. L’autore dissemina tasselli di informazioni tra i capitoli per poi arrivare a metà libro dove si ha ben chiaro il quadro della situazione. 

Per la maggior parte del libro Klara ha un ruolo passivo, si limita a osservare e si scopre che non solo la vita di Josie è problematica per la sua malattia, ma anche per la sua situazione familiare. Grande amico e anche amore della piccola umana di Klara è Ricky, un ragazzino che però viene emarginato dalla società perché non è “potenziato” come Josie e i compagni che frequenta. Ci troviamo in una società in cui i ragazzi potenziati hanno la prospettiva di una vita soddisfacente e brillante, futuro che non si prospetta per Ricky, il quale non rientra in questa categoria. 

Durante la lettura mi sono chiesta più volte “perché il titolo Klara e il Sole?”, all’inizio pensavo perché la protagonista si alimenta dei raggi solari, ma addentrandomi nella lettura si scopre che il sole ha più livelli di interpretazione: a volte ha una visione poetica, altre viene visto come una semplice stella, altre ancora ha una valenza divina. 

La storia scorre, anche se ci sono pause e momenti di riflessioni, ma tutto ciò ha un senso, essendo che Klara si trova ad assimilare le situazioni che vive. Klara e il Sole è una storia lenta, intima che al termine della lettura vi lascerà sulle labbra un sorriso pieno di malinconia.

#Prodottofornitoda @Einaudi

Namamiko. L’inganno delle sciamane di Enchi | Recensione

Pubblicato in Giappone per la prima volta nel 1965, L’inganno delle sciamane mette in scena, nei palazzi splendidamente adornati e carichi di segreti della corte del periodo Heian, l’indimenticabile storia d’amore tra l’Imperatore Ichijō (980-1011) e la sua Prima Consorte Teishi, e la sottile lotta politica messa in atto dal potente Cancelliere Michinaga per dividerli. La strategia dell’alto funzionario passerà per il corpo e per le labbra di ingannevoli sciamane, due sorelle che loro malgrado diverranno potenti guardiane di verità e menzogne, nonché autentico cuore di una storia memorabile che ha attraversato i secoli fino a giungere a noi grazie alla limpida scrittura di Fumiko Enchi. Attraverso un intreccio sul limitare tra verità storica e romanzo, in un ordito delicato e potente, Namamiko monogatari viene consegnato ai lettori contemporanei come un’esperienza letteraria di rara intensità.

Namamiko è stata una storia che mi ha intrattenuto e incuriosito, ma devo ammettere che ho fatto anche un bel po’ di fatica durante la lettura.

Pubblicato in Giappone per la prima volta del 1965, Namamiko – L’inganno delle sciamane racconta della storia d’amore, ambientata nel periodo Heian, tra  l’imperatore  Ichijō e la sua Prima Consorte Teishi, ma attenzione perché la trama non si focalizza sulla semplice relazione tra i due consorti, ma si evolve in uno scenario politico molto più ampio.

Tutto parte con l’imperatore Ichijō che sale al potere in età giovanissima e prende in sposa, come sua prima consorte,  Teishi, figlia dell’importante Ministro Michitaka. Teishi è di qualche anno più grande di Ichijō e all’inizio il ragazzo si sente in imbarazzo dinanzi alla bellezza della sua consorte, ma mano, mano che il tempo passa, il rapporto si evolve tramutandosi in amore. Le cose cambiano quando muore Michitaka e cerca di prendere il potere suo fratello Michinaga. Da qui si innescano una serie di trame politiche, partendo dai fratelli di Teishi che cercano di contrastare l’avanzata dello zio, alle cospirazioni della madre dell’imperatore Ichijō che detesta Teishi.

Nella prima parte del romanzo Fumiko Enchi racconta di come si è avvicinata a questa storia e ai testi ai quali attinge per poi realizzare un romanzo che rappresenta alcuni fatti storici e altri un po’ romanzati. Per gran parte della lettura si ha più la sensazione di leggere un saggio che un classico romanzo di narrativa, proprio perché vengono anche trascritti alcuni passi presi da altri testi.

Ciò che mi ha creato un po’ di problemi durante la lettura non è tanto la struttura del libro, quanto la difficoltà nel fissare per bene i personaggi. Anche se all’inizio del testo vi è un piccolo elenco che riassume i personaggi, ma ho veramente fatto molta fatica nel seguire tutti gli sviluppi e soprattutto nel tenere bene a mente queste figure. Nonostante questo problema, che è ovviamente un aspetto molto soggettivo, devo dire che la storia è riuscita a tenermi incollata alle pagine.

Ammetto di non essere preparata da un punto di vista storico, però ho apprezzato molto gli intrighi politici, di come Michinaga tenta in tutti i modi di distruggere il rapporto d’amore tra Ichijō e Teishi per far entrare nelle grazie dell’imperatore sua figlia. E Michinaga è disposto a usare qualsiasi mezzo per raggiunge il suo obiettivo, anche utilizzare sciamene e finte possessioni. Il libro si sofferma molto sulle dinamiche della lotta al potere, questo è anche un aspetto che mi porta a dire che si tratta più di un saggio che di un romanzo.

Nel complesso se siete affascinati dalla storia classica giapponese e avete voglia di tuffarvi negli intrighi di corte, è un libro che vi appassionerà!

 

 

Bethany e la Bestia di Jack Meggitt-Philips | Recensione

Ebenezer Tweezer è un uomo terribile con una vita meravigliosa. Sprizza giovinezza nonostante i suoi cinquecentoundici anni, e ogni giorno sale con slancio i quindici piani del suo palazzo per andare dalla bestia che vive nel sottotetto. Le dà in pasto creature di ogni genere e in cambio vede uscire dalla sua bocca tutto ciò che vuole. Ma quando la bestia si stanca di mangiare uccelli esotici e scimmie ammaestrate, soddisfarla diventa più complicato. È arrivata l’ora di assaggiare qualcos’altro, qualcosa di più tenero e succulento… come un bambino, per esempio!

Una storia per ragazzi che ricorda le tinte un po’ grottesche di Una serie di sfortunati eventi e quella punta di fantasia propria della penna di Dahl!

L’autore ci presenta subito Tweezer, un uomo che dimostra essere un giovane ragazzo, ma che in realtà ha più di cinquecento anni. Il suo segreto? Con lui vive una bestia che una volta all’anno gli dà una pozione per tenersi giovane e immortale. Tweezer ha un solo compito, quello di dare da mangiare alla bestia tutto quello che desidera, ma le cose si complicano quando il mostro decide di voler mangiare un bambino. Così Tweezer andrà all’orfanotrofio e porterà a casa con sé la tremenda e dispettosa Bethany!

Era da tanto che non leggevo una storia così scorrevole e divertente. A primo impatto mi sono trovata a fare il tifo per Tweezer perché Bethany è un’orfana egoista, maligna e dispettosa, come può un lettore affezionarsi a un personaggio del genere? Eppure, mano, mano che si va avanti nella storia, si capisce la vera essenza di questi personaggi. 

Da una parte abbiamo una bambina cresciuta senza genitori e senza amore, che ha imparato ad approcciarsi alla vita in modo prepotente, dall’altra parte abbiamo un uomo, cresciuto in solitudine, circondato solo da oggetti preziosi e dal suo egoismo. Cosa succede se questi due personaggi si trovano a vivere sotto lo stesso tetto? 

La maggior parte della storia si svolge all’interno della lussuosa e prestigiosa dimora di Tweezer, eppure, nonostante l’ambientazione sia sempre la stessa, ho trovato una certa dinamicità nella storia. Il libro è impreziosito da dalle illustrazioni in bianco e nero che per lo stile si addicono all’atmosfera un po’ horror. 

Bethany e la Bestia non è solo un’avventura horror con una punta di ironia, ma è un romanzo che insegna che con il sostegno di chi ci ama possiamo migliorare noi stessi per vivere una vita migliore. 

#Prodottofornitoda @Rizzoli