• cricchementali@gmail.com

Archivio dei tag Narrativa

Le strane storie di Fukiage di Yoshimoto | Recensione

“Mimi e Kodachi sono due sorelle gemelle cresciute nella cittadina di Fukiage. Allevate da una coppia di amici dei genitori perché in un incidente stradale il padre è rimasto ucciso e la madre giace tuttora in coma, compiuti i diciotto anni decidono di trasferirsi a Tōkyō, dove vivono una vita tranquilla, ciascuna intenta a inseguire le proprie inclinazioni. All’improvviso, però, Kodachi svanisce nel nulla. Mimi va a cercarla e torna a Fukiage, dove incontra personaggi misteriosi e scopre verità e leggende bizzarre sulla propria famiglia e su se stessa. Dove è finita Kodachi? Ritornerà? Si risveglierà la loro mamma? Una storia di amore e di sofferenza, di solitudine e spaesamento. Una riflessione sui sentimenti e sulla necessità di innescare il cambiamento che può trasformarci nella versione migliore di noi stessi.

Un romanzo dai tocchi fiabeschi con elementi di realismo magico!

Per quel che mi riguarda, Banana Yoshimoto ha il potere di farmi sentire a casa con la sua scrittura poetica e delicata.

Le strane storie di Fukiage mi ha fin da subito attirato non solo per la copertina, che trovo magnetica sia per i colori che per la grafica, ma anche per la trama che ti fa già prevedere una storia un po’ fuori dagli schemi.

Il lettore conosce le gemelle Mimi e Kodachi, due ragazze che si portano dentro il trauma dell’incidente dei loro genitori che è stato causa della morte del padre e dello stato comatoso della madre. Le gemelle si fanno forza negli anni, si trasferiscono a Tokyo per trovare la loro strada, ma tutto cambia quando un giorno Kodachi scompare. Mimi ritorna a Fukiage per cercarla, luogo dove si raccontano storie misteriose e dove si dice ci sia una via che porta a un’altra dimensione.

Così inizia il viaggio di Mimi che non solo è un viaggio fisico, ma anche interiore nel superamento di dolori e di sensi di colpa che non ha mai elaborato. Tra incontri con personaggi strambi e riferimenti a lungometraggi animati giapponesi, si svolge questa trama fiabesca con una punta di magia dove l’impossibile diventa possibile, dove il confine tra sogno e realtà non è così netto, ma si fonde in modo elegante ed elaborato.

Si tratta di una storia introspettiva in cui il lettore conosce per bene i pensieri e il passato di Mimi, ma l’autrice, anche se con poche righe, introduce egregiamente anche gli altri personaggi misteriosi e bislacchi, li caratterizza in modo così particolare che fin da subito si distinguono.

Una storia breve e delicata che sono sicura sarà apprezzata da chi ama le ambientazioni surreali e da chi è affascinato dalle storie che trattano dei sogni e dell’inconscio.

#prodottofornitoda @Feltrinelli

Terreno comune di Naomi Ishiguro | Recensione

Bicicletta e vento in faccia: solo così Stan può sfuggire alle prese in giro dei compagni e all’atmosfera pesante di casa. Un pomeriggio d’autunno, nel parco dove ama passare il tempo solo e in pace, conosce un ragazzo nuovo in città e diverso da tutti gli altri: è gentile, non va a scuola e vive in una roulotte. «Zingaro», lo definisce sprezzante il capo dei bulli. L’amicizia può resistere alle differenze e ai pregiudizi? E allo scorrere del tempo? Stan ha tredici anni e si è appena iscritto a una scuola nuova. Timido, studioso e occhialuto, non ha ricevuto l’accoglienza che sperava. Huxley e i suoi scagnozzi cominciano a tormentarlo già sullo scuolabus. La situazione non è rosea nemmeno a casa: il padre è morto e la madre si trascina triste e stanca. Ma un giorno Stan conosce Charlie, un ragazzo di tre anni più grande. Charlie è uno fico, che fa pugilato e che non ha paura di sporcarsi con il grasso della bicicletta. Si definisce «viaggiante», ma gli altri lo chiamano «rom», e certi anche «zingaro». Fatto sta che sa un sacco di cose interessanti e, incredibile a dirsi, vuole essere suo amico. È pronto addirittura a prendere le sue difese contro i bulli della scuola. A un certo punto, però, la faccenda si complica e il loro rapporto subisce, letteralmente, un brutto colpo. Una decina di anni dopo, a una festa a Londra, Stan e Charlie si rincontrano. Stan studia giornalismo, Charlie lavora in un magazzino. Birra dopo birra, ha anche messo su un po’ di pancia. Stan si mostra caloroso, questo sì, ma dietro quella giacca di tweed e quei bei discorsi astratti da intellettuale è rimasto qualcosa della persona di un tempo? La solidarietà passata resta valida anche a parti invertite?

Da amante della letteratura orientale come non leggere il libro della figlia di Kazuo Ishiguro?

Naomi Ishiguro con “Terreno comune” racconta una storia di vita che parte dall’adolescenza, tratta di un’amicizia che nonostante le avversità si consolida e rimane fino all’età adulta.

Con un linguaggio più fresco e moderno del padre, l’autrice intrattiene il lettore con uno stile chiaro e moderno. 

Fin dalle prime pagine il lettore conosce Stan, un ragazzino di tredici anni che è oppresso dal bullismo che vive a scuola, mentre a casa ha una madre persa nella sua malinconia per la perdita del marito, ma le giornate di Stan cambiano nel momento in cui incontra Charlie. Charlie ha sedici anni, ha una visione della vita diversa dalla sua, è coraggioso, sfrontato e tutti lo considerano uno zingaro per le radici della sua famiglia. Stan per la prima volta trova un vero amico e non si fa influenzare dai pregiudizi della gente.

La prima parte del libro è quella forse più lenta, ma che ho apprezzato di più perché tratta della nascita del loro rapporto, piano, piano il lettore entra in confidenza con questi due personaggi che, seppur con radici diverse, l’amicizia nasce solida e profonda fin dall’inizio. Dopo un incidente c’è un salto temporale e incontriamo di nuovo Stan e Charlie, diversi perché la vita cambia le persone, ma non muta il loro rapporto anche dopo anni di silenzi.

Ho apprezzato molto l’evoluzione e il cambiamento dei due protagonisti che ho trovato realistici e ben caratterizzati, avrei preferito un maggior approfondimento sulle figure secondarie, ma nel complesso la struttura funziona.

La storia è lineare, si parla di storie di vita, di bullismo, di pregiudizi, ma anche di speranza e di amicizia. Una storia che fa riflette e che tratta temi anche attuali. 

#prodottofornitoda @Einaudi

Palazzo di Sangue di Jane Hur | Recensione

Essere figlia illegittima nella Corea del 1700 significa non avere futuro. E infatti nessuno scommetterebbe su Hyeon, diciotto anni e una passione per la medicina. Neanche chi l’ha messa al mondo. Eppure, la sua determinazione la porta fino al palazzo del principe, dove trova lavoro come infermiera di corte. Non diventerà mai medico, certo, perché è solo una donna, ma se non farà troppo rumore forse riuscirà a ottenere almeno il rispetto di suo padre. Nel palazzo, però, niente è come sembra. Jeongsu, la sua mentore, la mette in guardia fin da subito: i pettegolezzi possono essere pericolosi. Possono esplodere… In una sola notte vengono assassinate quattro donne, i loro corpi sono rinvenuti nell’ambulatorio di Jeongsu. Nessuno ha visto nulla, ma per la polizia trovare un capro espiatorio tra le donne non è difficile. È Jeongsu la colpevole. E merita la morte. Hyeon è certa che la sua amica non abbia commesso quegli omicidi ed è intenzionata a provarlo. Anche se per farlo potrebbe attirare su di sé il biasimo di tutti. Ricostruire i fatti che hanno portato al massacro, però, è più pericoloso del previsto e nemmeno la strana alleanza che Hyeon stringe con Eojin, giovane ispettore dai modi autoritari e lo sguardo intenso, può proteggere la ragazza dalla rovina. Soprattutto perché… la scia di sangue non accenna ad arrestarsi. June Hur dà vita a un romanzo basato su fatti storici reali, l’inquietante storia di un Jack lo Squartatore coreano.

Se mi seguite sapete che amo tutto ciò che è orientale e da qualche anno mi sono avvicinata anche alla cultura coreana (in particolar modo ai k-drama – serie tv coreane). Ebbene quando ho letto la trama di Palazzo di Sangue non sono riuscita a trattenermi e mi sono immersa nella lettura.

Ci troviamo nel regno Joseon, più precisamente intorno al 1700, e l’autrice imposta la storia, che mescola il giallo con un po’ di thriller e un pizzico di romanticismo, su un personaggio storico realmente esistito: il principe ereditario Jangheon (noto anche con il nome di principe ereditario “Sado”).

La protagonista è Hyeon, una diciottenne che riesce a entrare nel palazzo reale come infermiera di corte. La sua vita già costellata di sacrifici per il suo essere una figlia illegittima, viene turbata maggiormente da un omicidio di quattro donne che avviene nel palazzo. Hyeon si troverà a indagare sul caso e la sua vita si intreccerà con il giovane ispettore Eojin.

Non sono una grande amante dei gialli, eppure questa storia mi ha conquistata, credo soprattutto per l’ambientazione coreana. La maggior parte delle vicende sono ambientate nel palazzo, ma non solo perché spesso Hyeon e Eojin si troveranno a indagare anche fuori le mura della corte, e in questi momenti i due si avvicineranno sempre di più.

La dinamica dell’omicidio è interessante, ma devo ammettere che sono stata presa soprattutto dalla coppia protagonista! Lei è una ragazza intelligente, caparbia e dall’animo puro, mentre Eojin è un giovane autoritario che mette al primo posto la giustizia, concetto che non sempre viene portato avanti nella corte.

Tra i due l’intesa cresce piano piano. Se siete già esperti di serie coreane saprete il tipo di romanticismo che troverete, ovvero quello delicato, fatto da piccoli gesti che però per l’epoca erano grandi.

Oltre l’ambientazione, ho amato il fatto che nei dialoghi ci fossero dei termini coreani che a me sono familiari, (ma tranquilli perché alla fine del libro c’è un glossario) comprese anche le consuete loro esclamazioni. E’ stata una lettura piacevole, avvolta nel mistero eppure non è mancato il lato romantico che non guasta mai in storie del genere.

#Prodottofornitoda @Deagostini 

Il mondo è un alveare di Harris | Recensione

C’è una storia che le api raccontano a cui è impossibile non credere. Una storia che si perde nei secoli. Ha inizio con la nascita di Re Crisopa, un uomo crudele e ingannatore, che trova la redenzione compiendo un lungo viaggio dentro sé stesso e nel cuore silenzioso del mondo. È qui che incontra individui straordinari, ognuno dei quali ha qualcosa da insegnare. La creatività è il primo regalo che riceve, da un abile giocattolaio che rincorre l’opera perfetta, perché incapace di sacrificare la purezza dell’arte in nome della cinica materialità. La conoscenza è il secondo dono e giunge da una principessa tenace il cui animo si riscalda con le parole del sapere e si inaridisce di fronte alle rigide regole di corte. Grande esempio di solidarietà è per lui il cane più piccolo che si sia mai visto, il più insospettabile degli esseri mondani che nasconde un coraggio senza pari. Poi è la volta della regina innamorata della luna, che gli trasmette la bellezza come nessun altro sa fare. Incontro dopo incontro, Re Crisopa impara a guardarsi intorno con occhi diversi e scopre che il mondo assomiglia a un grande alveare. Come la casa delle api, è un mosaico di tanti microcosmi abitati da centinaia di migliaia di creature che, industriose, si adoperano perché tutto funzioni alla perfezione. Nessuna creatura può fare a meno dell’altra. Soltanto con uno sforzo collettivo si può tessere un grande racconto che si nutre del nettare magico dell’immaginazione. “Il mondo è un alveare” racchiude un universo di opposti dove luci e ombre, sogni e incubi, virtù e malvagità convivono e creano un perfetto equilibrio. Un universo dove la parola è una forza in grado di plasmare la realtà che ci circonda e di renderla intelligibile a chi è disposto ad ascoltare la sua voce senza pregiudizi.

Sapete chi è Joanne Harris?
Si tratta dell’autrice che ha scritto il libro Chocolat, dal quale è stato tratto il film con Johnny Depp. Questa volta la Harris scrive una storia molto particolare non solo per l’ambientazione, ma anche per la struttura dei capitoli. 

“Il mondo è un alveare” è la storia dell’ambizioso e spietato Re Crisopa, il sovrano del Popolo della Seta, che con inganni e azioni crudeli porta scompiglio ovunque. Ma più il tempo passa e più il Re si rende conto che c’è qualcosa che gli manca, si sente vuoto e perso, e così inizia un viaggio, un percorso che gli farà comprendere le malefatte passate, intraprendendo la strada della redenzione. 

Il libro è diviso non in capitoli “classici”, ma in fiabe che hanno un’ambientazione cupa e grottesca (tipica delle favole tradizionali). La maggior parte delle favole hanno come protagonista Crisopa, in altre è un personaggio secondario, in altre ancora non compare, ma vengono introdotti nuovi personaggi e alcuni di questi si troveranno coinvolti con il protagonista nel corso della narrazione. 

Già la costruzione di questi capitoli l’ho trovata magistrale, una narrazione a puzzle dove ogni tassello trova il suo posto andando avanti nella storia. Se all’inizio non comprendente molto, non demordete e andate avanti con la lettura! 

Tra i tanti personaggi che crea l’autrice mi sono subito affezionata proprio a Crisopa, anche se è un protagonista egoista e maligno, ma ha anche delle fragilità che affioreranno con il tempo. Il percorso che intraprende l’ho trovato molto realistico e ben bilanciato, arrivando a una conclusione che ho trovato perfetta e dolce/amara. Un finale che si collega a incastro con i primi capitoli. 

Se devo trovare una pecca, forse avrei evitato qualche fiaba (di quelle che non hanno un legame con la storia principale) proprio perché a volte la lettura tende a prendere un ritmo più lento. 

Lo stile dell’autrice è sempre piacevole e scorrevole, riesce a immergere il lettore nella storia in poche righe, rendendo i personaggi vibranti e umani, nonostante siano creature che hanno un legame con gli insetti e a volte hanno fattezze antropomorfe, come lo stesso protagonista. 

Una storia che parla di redenzione, di amore, di risentimento, di rimpianto e soprattutto di perdono. 

Se siete amanti delle fiabe un po’ grottesche, dei viaggi in mondi fantastici, di situazioni bizzarre e surreali, e avete voglia di una lettura diversa dalle solite, vi consiglio questo libro che mi ha conquistata. 

#Prodottofonitoda @Garzanti

La strada di Cormac McCarthy | Recensione

Un uomo e un bambino, padre e figlio, senza nome. Spingono un carrello, pieno del poco che è rimasto, lungo una strada americana. La fine del viaggio è invisibile. Circa dieci anni prima il mondo è stato distrutto da un’apocalisse nucleare che lo ha trasformato in un luogo buio, freddo, senza vita, abitato da bande di disperati e predoni. Non c’è storia e non c’è futuro. Mentre i due cercano invano più calore spostandosi verso sud, il padre racconta la propria vita al figlio. Ricorda la moglie (che decise di suicidarsi piuttosto che cadere vittima degli orrori successivi all’olocausto nucleare) e la nascita del bambino, avvenuta proprio durante la guerra. Tutti i loro averi sono nel carrello, il cibo è poco e devono periodicamente avventurarsi tra le macerie a cercare qualcosa da mangiare. Visitano la casa d’infanzia del padre ed esplorano un supermarket abbandonato in cui il figlio beve per la prima volta un lattina di cola. Quando incrociano una carovana di predoni l’uomo è costretto a ucciderne uno che aveva attentato alla vita del bambino. Dopo molte tribolazioni arrivano al mare; ma è ormai una distesa d’acqua grigia, senza neppure l’odore salmastro, e la temperatura non è affatto più mite. Raccolgono qualche oggetto da una nave abbandonata e continuano il viaggio verso sud, verso una salvezza possibile…

La strada è uno di quei romanzi di cui ho sempre sentito parlare molto bene, quindi quando mi sono approcciata alla lettura avevo alte aspettative.

Ci troviamo in un mondo post apocalittico, in cui un padre con il proprio figlio intraprendono un viaggio per la sopravvivenza.

L’ambientazione grigia e cupa è palpabile grazie a uno stile fluido e vibrante. McCarthy scrive una storia che non ha molte descrizioni e non dà neanche molte spiegazioni, e così il lettore si focalizza su questo meraviglioso rapporto tra un genitore e il proprio figlio. I dialoghi tra i due sono semplici, forse a volte banali, ma molto intensi e intimi.

Durante il romanzo non succede poi molto, i due protagonisti nel loro percorso incontreranno delle persone, ma saranno solo delle “comparse”, dei brevi incontri, per poi tornare al loro viaggio.

Si tratta di un romanzo lento, a tratti l’ho trovato statico, ma è anche intimo e riflessivo. Personalmente non mi ha coinvolta molto, a parte qualche scena toccante tra il padre e il figlio, ma per il resto della lettura non succede poi molto e questa “staticità” della trama mi ha rallentato molto la lettura. Sicuramente è un libro non adatto a tutti, non tanto per il tema o l’ambientazione, ma per come l’autore decide di narrare questa storia. Non aspettatevi azione e neanche ulteriori spiegazioni, il tutto si sofferma sulle sensazioni e il rapporto tra il padre e il figlio.

Le figlie del dragone di Andrews | Recensione

Anna Carlson ha vent’anni ed è stata adottata. Dopo la morte della madre adottiva, decide di fare un viaggio in Corea per scoprire le sue origini. Ma grande è il suo sconforto quando scopre che la sua vera madre è deceduta nel darla alla luce. Proprio quando sembra che la sua ricerca sia finita, Anna viene avvicinata da una anziana signora, Jae-hee, che le dice di essere sua nonna e le consegna un pettine raffigurante un drago di avorio con due teste e le zampe con cinque piedi ciascuna. Jae-hee a quel punto racconta alla ragazza una storia che ha inizio nel 1943, quando Jae-hee e sua sorella Soo-hee vengono reclutate dall’esercito giapponese, che aveva occupato il Paese, per lavorare in una fabbrica di stivali. Il padre è disperso in guerra e non farà mai ritorno. In realtà le ragazze diventano comfort girls, cioè prostitute, schiave sessuali dei soldati giapponesi per un paio d’anni: vengono sottoposte a violenze indicibili, subiscono la fame e umiliazioni quotidiane. Jae-hee ha una posizione leggermente migliore rispetto alle altre perché diventa la favorita del colonnello. Soo-hee resta incinta e, al momento della disfatta dei giapponesi, sembra in punto di morte per un aborto fatto con mezzi inadeguati. Tutte le altre ragazze vengono uccise, mentre Jae-hee è l’unica sopravvissuta… Mentre la narrazione di Jae-hee prosegue, Anna scopre che il prezioso pettine a forma di drago è sopravvissuto, contro ogni previsione, attraverso generazioni di donne della sua famiglia.

Vi capita mai di leggere un libro talmente bello, che vi ha preso così tanto emotivamente da non trovare le parole per descriverlo?
Ecco, questo è il caso de Le figlie del dragone.

William Andrews con questo romanzo decide di portare alla luce un evento storico che negli anni è stato “dimenticato”, ma forse è meglio dire accantonato o nascosto, dalla società orientale. Durante la seconda guerra mondiale, l’esercito giapponese prendeva giovani ragazze, anche tredicenni, soprattutto coreane (e non solo), e le costringevano a diventare donne di conforto. Queste povere donne vivevano strappate dalle loro famiglie e dal loro paese per essere violentate nelle stazioni di conforto al servizio dell’esercito Giapponese. 

Il lettore conosce Anna Carlson, una ragazza di vent’anni che decide di partire per la Corea per conoscere la sua madre biologica. Purtroppo una volta giunta a destinazione scopre che la donna è morta, ma Anna conoscerà sua nonna Jae-hee che le racconterà la sua vita e dell’importante compito che deve portare a termine. 

Come si intuisce, la vera protagonista della storia non è Anna, ma proprio Jae-hee, la quale racconta di quando lei e sua sorella sono state portate con l’inganno alla stazione di conforto dai giapponesi.  La vita di Jae-hee è piena di violenze, sconfitte, porte chiuse in faccia e delusioni. Una donna che ha dovuto combattere contro tutti, trovando difficilmente degli alleati. 

Un libro intimo, intenso e vibrante di emozioni. Ho amato ogni cosa di questo romanzo: lo stile fluido, la caratterizzazione dei personaggi, le ambientazioni, i richiami alla cultura orientale, ma ammetto anche di avere avuto un po’ di difficoltà nella lettura con la prima metà del libro dove vengono descritte le violenze che subisce Jae-hee. Per questo motivo più di una volta mi sono trovata a interrompere la lettura per riprendermi, quindi, per quanto penso che sia un libro che tutti dovrebbero leggere, sono anche dell’idea che se siete facilmente impressionabili è meglio pensarci due volte prima di iniziare questa lettura. 

Una lettura che mi ha coinvolta emotivamente fin dalle prime pagine e mi ha tenuta compagnia fino alla fine lasciandomi il cuore infranto e un velo di malinconia. 

Venivamo tutte per mare di Julie Otsuka | Recensione

“Da anni” ha dichiarato Julie Otsuka, “volevo raccontare la storia delle migliaia di giovani donne giapponesi – le cosiddette “spose in fotografia” che giunsero in America all’inizio del Novecento. Mi ero imbattuta in tantissime storie interessanti durante la mia ricerca e volevo raccontarle tutte. Capii che non mi occorreva una protagonista. Avrei raccontato la storia dal punto di vista di un ‘noi’ corale, di un intero gruppo di giovani spose”. Una voce forte, corale e ipnotica racconta dunque la vita straordinaria di queste donne, partite dal Giappone per andare in sposa agli immigrati giapponesi in America, a cominciare da quel primo, arduo viaggio collettivo attraverso l’oceano. È su quella nave affollata che le giovani, ignare e piene di speranza, si scambiano le fotografie dei mariti sconosciuti, immaginano insieme il futuro incerto in una terra straniera. A quei giorni pieni di trepidazione, seguirà l’arrivo a San Francisco, la prima notte di nozze, il lavoro sfibrante, la lotta per imparare una nuova lingua e capire una nuova cultura, l’esperienza del parto e della maternità, il devastante arrivo della guerra, con l’attacco di Pearl Harbour e la decisione di Franklin D. Roosevelt di considerare i cittadini americani di origine giapponese come potenziali nemici. Fin dalle prime righe, la voce collettiva inventata dall’autrice attira il lettore dentro un vortice di storie fatte di speranza, rimpianto, nostalgia, paura, dolore, fatica, orrore, incertezza, senza mai dargli tregua.

Questa è l’America,  ci saremmo dette, non c’è nulla di cui preoccuparsi.

E ci saremmo sbagliate.

Un romanzo corale tutto al femminile.

Ho amato questo romanzo soprattutto per come è scritto. Ogni frase è una voce. Ogni capitolo è uno step della loro vita. Ogni virgola, ogni punto vibra di emozioni, speranze e dolori di queste donne che non hanno un volto, non vengono descritte, ma le loro voci si sentono chiare e nitide. 

Sono chiamate “le spose in fotografia”, donne che partono dal Giappone per sposare gli immigrati giapponesi che vivono in America. Orientativamente la storia è ambientata intorno agli anni 40 del Novecento. Queste donne affrontano un viaggio estenuante, alcune arrivano alla meta, altre non accettano il loro destino e si suicidano in mare, altre ancora muoiono per gli stenti. Quelle che sopravvivono incontrano i loro mariti e affrontano la prima notte di nozze. C’è chi ne rimane delusa, chi umiliata, chi è un po’ più fortunata, chi vede il suo sogno d’amore infrangersi con la dura realtà. E poi arriva il lavoro sfiancante, la gravidanza, i figli, la guerra…

Venivamo tutte per mare è un piccolo volume di sole 140 pagine, non ci sono dialoghi, non aspettatevi colpi di scena o azione, ma un romanzo intimo, scorrevole e ipnotico. Una storia corale che vibra di emozioni. 

Le intermittenze della morte di Saramago | Recensione

Le intermittenze della morte

Saramago

Un paese senza nome, 31 dicembre, scocca la mezzanotte. E arriva l’eternità, nella forma più semplice e quindi più inaspettata: nessuno muore più. La gioia è grande, la massima angoscia dell’umanità sembra sgominata per sempre. Ma non è tutto così semplice: chi sulla morte faceva affari per esempio perde la sua fonte di reddito. E cosa ne sarà della chiesa, ora che non c’è più uno spauracchio e non serve più nessuna resurrezione? I problemi, come si vede, sono tanti e complessi. Ma la morte, con fattezze di donna, segue i suoi imprendibili ragionamenti: dopo sette mesi annuncia, con una lettera scritta a mano, affidata a una busta viola e diretta ai media, che sta per riprendere il suo usuale lavoro, fedele all’impegno di rinnovamento dell’umanità che la vede da sempre protagonista. Da lì in poi le lettere viola partono con cadenza regolare e raggiungono i loro sfortunati (o fortunati?) destinatari, che tornano a morire come si conviene. Ma un violoncellista, dopo che la lettera a lui indirizzata è stata rinviata al mittente per tre volte, costringe la morte a bussare alla sua porta per consegnarla di persona.

Il giorno seguente non morì nessuno. 
Il fatto, poiché assolutamente contrario alle norme della vita, causò negli spiriti un enorme turbamento, cosa del tutto giustificata, ci basterà ricordare che non si riscontrava notizia nei quaranta volumi della storia universale […]

I libri dell’autore portoghese mi hanno sempre molto intrigata, ma per il suo stile particolare sono sempre stata restia a buttarmi nelle sue storie. 

La quarta di copertina spiega forse un po’ troppo della storia. Ci troviamo in un paese senza nome, all’improvviso la morte smette di fare il suo lavoro e per i seguenti sette mesi non muore nessuno. 

Per quanto la storia sia surreale, spesso grottesca, la cosa che ho adorato di questo libro è il fattore realistico delle dinamiche che si vanno a innescare per quanto riguarda la situazione politica, religiosa e dei comuni cittadini. Il lettore a questo punto si trova a pensare: se la morte non facesse più il suo lavoro, succederebbe quello che va a raccontare Saramago? E la risposta è: molto probabilmente sì. 

Il libro lo possiamo dividere in due parti, nella prima si affrontano le conseguenze di questa “apparente vita eterna”, nella seconda la morte ritorna, ma questa volta la protagonista indiscussa è proprio lei. Una figura ultraterrena che deciderà di fare visita a un violoncellista che a quanto pare non ha alcuna intenzione di morire. 

Saramago è un autore molto particolare, soprattutto per lo stile di scrittura. L’autore usa una punteggiatura non tradizionale, ovvero scrivere periodi molto lunghi, intervallati da virgole. Non ci sono altri simboli di punteggiatura, anche per quanto riguarda i dialoghi che sono introdotti dalla lettera maiuscola. Personalmente, a lungo andare, ho trovato questo stile un po’ impegnativo e spesso mi perdevo nella lettura. 

Stile di scrittura a parte ho apprezzato molto la trama, parliamo di una storia in cui l’autore non dà importanza al contesto, ma al contenuto. Un libro che non si perde in descrizioni, ma si sofferma su riflessioni molto attuali. 

Le intermittenze della morte è un libro che vi catapulterà in una situazione surreale e bizzarra, trattando però dinamiche molto realistiche e vicine alla nostra società.